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No Country for Indie Rockers

febbraio 28, 2013 Lascia un commento

Un paio di mesi fa mi capitò fra le mani un libro di cui avrei dovuto scrivere – libro giovane, edito da un buon nome: magari, pensai, non è una cazzata.
Ed invece, ovviamente, lo era. Brutto brutto, tutto tutto – trama e personaggi, e dialoghi al limite dell’assurdo che manco Dawson’s Creek, tempi completamente sballati, e traduzioni dall’inglese alquanto opinabili (save, in inglese, non vuol dire solo salva – cioè, il titolo di questo pezzo non vuol dire Salva una preghiera). Sembrava impossibile arrivare alla fine, ma ce l’ho fatta.

Comunque, la cosa è un’altra: in questo libro i protagonisti suonano in un gruppo. Bene, mi dicevo leggendo la quarta: magari chi l’ha scritto s’è fatto un giro per locali, a chiedere ai gruppi come funziona l’underground, magari c’è qualche parola di protesta su come il musicista medio viene trattato.
Invece no. Cioè, la normalità finisce quando il tal gruppo si propone a un locale, perché poi è fantascienza pura: il proprietario del locale va ad assistere ad una prova e poi gli conferma la serata per due giorni dopo. Ora, io credo che se qualcuno voglia scrivere di qualcosa che non conosce e di cui non ha esperienza, debba quantomeno indagare, chiedere, analizzare, eccetera.
Purtroppo per una certa “letteratura” succede di rado. Molto di rado. Troppo di rado.

Io suono in un gruppo indipendente. Non mi piace dire emergente, perché l’immagine che mi faccio in testa è quella di una marmaglia di musicisti scamazzati in un laghetto col rischio di affogare e chi emerge non muore ma se emerge qualcun altro sei morto – nella mia testolina romantica nell’underground ci si aiuta gli uni con gli altri, magari si diventa pure amici – mors tua mors mea, vita tua vita mea – però è vero che dire gruppo indipendente è edulcorare la situazione, perché è difficile uscire fuori: il laghetto esiste ed esistono pure l’invidia, e i tradimenti, e i bastoni fra le ruote, e quelli disposti a zomparti in testa per farsi vedere.
Comunque, uscire fuori dal laghetto equivale a farsi conoscere. E ad oggi ci si fa conoscere sui social network e quando si suona nei locali.

Ed arriviamo al punto: come arriva un gruppo emergente al locale. Le strade sono tante, e di certo non funziona come descritto lì. Proprio no. Funziona che se sei un gruppo alla prima serata ti vai a proporre ad un locale che sai che fa suonare. Vai proprio tu. Quello al 90% non se ne fotte minimamente di quello che suoni: puoi pure andare là e bestemmiare gesucrìsto per un’ora, basta che gli porti la gente. Ed ecco il bruttissimo incarico di musicista-PR, e ti devi mettere a fare l’evento su facebook, a contattare la gente, a condividere, perché se poi la serata va male quel cachet che hai concordato va puntualmente a farsi benedire. Più d’una volta sono incappato in gente che a fine serata ha messo davanti a noi, poveri musicanti, l’incasso della serata: sì, la gente c’era, ma non hanno consumato. Ricordo volte che s’era smesso di suonare verso mezzanotte, e poi aspettavi che sfollava il locale, e poi dovevi fare le quattro di mattina a ragionare con il proprietario che non ti voleva pagare. Poi ci stanno quelli che non ti fanno manco mangiare, che se vuoi una birra te la devi pagare, eccetera eccetera.

E per non farci mancare niente: eccoli, i promoter! Magari fai un contest organizzato da qualcuno, e magari entri in contatto con qualcuno che poi ti trova le serate (sempre nel solito giro di tre locali), e ogni due/tre mesi ti vai ad abbuscare 150 euro (da dividere in tre, quattro, cinque elementi) senza pensare che quello ha accordi privati col locale e si fa i meglio soldi dietro alla scritta “associazione no-profit”. Magari ti dicono pure che con la pubblicità se la vedono loro… poi però se non viene gente quello che lo prende in quel posto è sempre il musicista.

A proposito di contest: spesso pure quelli sò modi per avere le serate live senza pagare nessuno. Però alla fine uno pensa che ci sta la competizione, la promessa di un EP, o di una cosa di soldi, e chiude l’occhio. Poi i locali cavalcano l’onda del palco libero: venite, sta il palco, portatevi gli strumenti! Se esce a situazione simpatica fra amici è pure divertente, però uno ci va pensando.
I più belli sono stati quelli di un noto locale vicino Napoli che qualche settimana fa hanno proposto come appuntamento settimanale la prova sul palco: uno si prenota, e va là, e suona come se stesse in sala prove. Meraviglia. Trovatemi un gruppo che va a farsi la prova su un palco come si fa in sala: ripeti il riff, rifai il pezzo, a metà canzone uno sbaglia e allora si ricomincia daccapo, aspè che l’ampli suona male, aggiustati le frequenze, devo stringere le pelli della batteria, aspè, aspè. Però quella della prova libera non l’avevo mai sentita prima: a suo modo, è geniale.

Quello dell’underground non è sempre un mondo di merda, benchiaro: c’è pure gente seria. Ma è la minoranza. Ed è per questo che quando leggo le favolette m’ingrippo: sui suprusi sui musicisti indipendenti in Italia ci sarebbe una miriade di racconti da scrivere, roba da riempire una sezione di una biblioteca. Sarebbe ora d’iniziare.